In America gli uffici sono tutti open space, a dimostrazione che le abitudini e la prossemica nel nuovo continente sono diversi dalle nostrane.
In Italia invece, la maggior parte delle persone odia gli uffici predisposti a “spazio aperto”, soprattutto se si proviene da una realtà “vecchio stile” con stanze da 2 massimo 3 persone e ci si ritrova improvvisamente in un salone con più di dieci postazioni (magari dopo lo stress di un cambio o trasloco aziendale).
Dal di fuori si potrebbe pensare che è stimolante lavorare immersi concretamente in un gruppo ma alla fine, anche i più socievoli arricciano il naso…
E spesso infatti nessuno sceglierebbe spontaneamente di lavorare in queste condizioni.
Le origini dell’open space
Questo tipo di ufficio è nato negli anni ’50 ed anche prima proprio in America con la proposta pioniera di Frank Lloyd Wright.
Originariamente era considerato il miglior modo per lavorare perché offriva un totale controllo sui dipendenti a causa dell’assenza totale di privacy e di spazio individuale, del contatto visivo con tutti i colleghi e quindi l’impossibilità di distrarsi o di portare avanti attività estranee all’impiego.
Una proposta che andava contro quella di divisione cellulare degli uffici e quindi si diffuse ampiamente con l’obiettivo di rivoluzionare il mondo del lavoro perché avrebbe:
– favorito i flussi comunicativi e la collaborazione tra le persone;
– ridotto al minimo le divisioni gerarchiche;
– aumentato flessibilità e democraticità.
Aperto in questo senso dunque: tutti infatti hanno a disposizione lo stesso accesso alle informazioni, la distanza fisica e psicologica tra un gruppo di persone viene praticamente annullata e le persone sono portate ad incanalare le proprie energie nel lavoro comune, aumentando la tendenza a vedersi più come un organismo unico che un insieme di singoli individui.
Questo almeno nei fondamenti teorici iniziali.
Cosa significa open space in realtà
Nella pratica, succede più semplicemente che le aziende ne approfittino per sfruttare gli spazi, ammassando persone in uno spazio ristretto, contravvenendo totalmente alle leggi della prossemica (lo studio delle relazioni tra distanza psicologica e fisica, che varia rispetto alla popolazione, alla cultura, al sesso ma anche alla classe sociale e all’ambiente nel quale ci si trova).
Invece di sentirsi a proprio agio e favorire un clima di lavoro aperto che giovi alla comunicazione, la convivenza forzata tra colleghi in spazi non proprio agevoli sembrerebbe remare contro.
E se anche le aziende mettono a disposizione spazi congrui, comunque l’open space anche dal punto di vista igienico non farebbe che agevolare il diffondersi di virus e batteri (aumentando l’assenteismo per malattia); psicologicamente invece, lo stress ed il nervosismo accumulati per il fatto di dover continuamente sopportare i desideri del gruppo sono contagiosi e a quanto pare si moltiplicherebbero in breve tempo alle altre persone, con buona pace delle malattie psicosomatiche che ne conseguono.
Pensato inizialmente per elevare la produttività, l’open space si rivela invece, in poche parole, una democraticità a discapito della privacy (le persone infatti per parlarsi privatamente sono costrette a rifugiarsi sempre più in altri luoghi come bagni o macchinette del caffè) e le interruzioni continue che lo caratterizzano, costringono in realtà a cali di concentrazione a discapito della stessa produttività anelata.
Per tornare alla prossemica, è stato sottolineato da molti esperti come i confini ci debbano comunque essere, ogni essere umano ne ha bisogno e ne è la prova che gli impiegati, in modo più o meno conscio, trovano comunque un modo per crearsi uno spazio più intimo: ad esempio innalzando pile protettive di carta ai lati della scrivania.
Come salvarsi se il nostro ufficio è in open space?
Nell’attesa di cambiare azienda, come in tutte le condizioni di condivisione “forzata” di uno spazio comune, ci sono poche regole di base per riuscire a sopravvivere.
Vere e proprie parole d’ordine a prova di bomba: Rispetto – Discrezione – Ordine.
Che nella pratica possono diventare:
- disponibilità a mediare con gli altri per cercare insieme una soluzione quando si presenta un problema (es. chi vuole tenere una finestra aperta e chi chiusa);
- tenere sempre sotto controllo il tono della propria voce e la suoneria dei propri cellulari;
- gestire le interruzioni continue comunicando agli altri che dedicherete loro dei momenti precisi lungo la giornata (anche se all’inizio vi guarderanno un po’ storto, poi si accorgeranno anche loro della vostra “tattica” e ne constateranno l’efficacia);
- isolarsi momentaneamente dagli altri per concentrarsi, grazie ad un paio di cuffie… e soprattutto chiedere agli altri di fare altrettanto.
Grazie alla Dott.ssa Tania Milesi per la collaborazione nella stesura.
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