Il primo a diagnosticare questa malattia fu Alois Alzheimer quando, nel 1901, studiò il caso di una paziente che era affetta da questa particolare demenza.
Successivamente la patologia venne inserita anche nel “Manuale di Psichiatria”, grazie allo studio di altri undici casi condotto dallo psichiatra tedesco Emil Kraepelin nel 1910 e che lo portò a definirla “Malattia di Alzheimer” o “Demenza Presenile”.
Una scoperta che risale al secolo scorso ma che ha subito un aumento d’interesse solo recentemente, probabilmente per l’aumento di soggetti colpiti e per il successivo coinvolgimento dell’intera famiglia nell’assistenza del malato.
La caratteristica che rimane più impressa, ed anche la più dolorosa, è proprio che colpisce “materialmente” una singola persona ma ne ferisce molte altre, prima fra tutte la famiglia, gli amici e successivamente gli operatore che accoglieranno il malato nelle strutture.
Cos’è la Malattia di Alzheimer
La malattia di Alzheimer è un processo degenerativo che, con il passar del tempo, pregiudica le cellule cerebrali, è una malattia della vecchiaia la cui frequenza aumenta con l’aumento dell’età.
Il numero nuovo di casi diagnosticati, aumenta considerevolmente con l’età: tra i 70 e gli 80 anni è di circa 1 su 100 soggetti, per poi raddoppiare ogni cinque anni, a 85 anni la stima è fra 20% e 50%.
Nello specifico, in Italia ne soffrono circa 492.000 persone, le donne ne sono affette maggiormente a causa della maggiore vita media rispetto gli uomini.
E’ difficile fare una previsione dell’evoluzione della malattia, perché sono pochi quei fattori che possono essere riconosciuti come sintomi specifici: disturbi del linguaggio, disturbo della memoria, difficoltà di orientamento, confusione, ansia, deliri e difficoltà varie che interferiscono con le normali attività quotidiane.
Il quadro clinico è reso ancora più complesso dal fenomeno della facciata: il paziente è in grado di fronteggiare le situazioni quotidiane stereotipate, anche lavorative di un certo livello, mentre invece si trova in difficoltà a gestire compiti anche banali che esulano dalla quotidianità.
I costi sociali della malattia
Diffondendosi la sua conoscenza, emergono anche in modo chiaro i primi problemi: questa malattia impone “costi” rilevanti sia per la mortalità, che per la qualità di vita del malato, per i costi delle strutture sanitarie e per la salute psicofisica di chi presta assistenza.
Inoltre il rapporto tra le famiglie e la rete istituzionale è deludente se si considera che proprio i servizi più utili per i malati di Alzheimer sono più carenti: i centri diurni, il ricovero in strutture socio-assistenziali, assistenza domiciliare, ecc…
Questa risposta insufficiente aumenta il peso della malattia sia al paziente che alla sua famiglia e, di fatto, finisce per negare quegli interventi tempestivi che consentirebbero di migliorare le condizioni di vita e di risparmiare risorse economiche e sociali.
Il ruolo della famiglia
La mancanza di motivazione a cercare aiuto medico o psicologico è uno dei maggiori impedimenti alla diagnosi e porta a far ricadere su altri la responsabilità di riconoscere il problema, di decidere di agire e quindi di convincere il paziente a farsi visitare.
Il riferimento principale per i malati di Alzheimer è senza dubbio la famiglia.
E la malattia ha conseguenze anche su suoi componenti: i caregiver (coloro che si prendono cura) dei pazienti risentono dello stress che comporta l’assistenza medica e possono mettere in atto condotte poco salutari che a lungo andare portano a problemi fisici e psichici: ridotta alimentazione, scarso esercizio fisico e poche ore di sonno…
Spesso la responsabilità del malato è assunta da un’unica persona in quanto è molto diffusa la tendenza ad allontanarsi e a non farsi coinvolgere per il peso emotivo che questo provoca nei familiari. Capita spesso quindi che i vari familiari gradualmente deleghino sempre più su un solo membro che, ritrovatosi solo, canalizza poi tutte le sue energie nell’assistenza, rischiando di isolarsi emotivamente e socialmente fino ad arrivare ad una vera e propria crisi psichica.
Come aiutare chi si occupa dei malati di Alzheimer?
Considerato l’alto coinvolgimento emotivo di chi si trova a vivere giornalmente con un familiare stretto (spesso genitori, nonni o zii) che arriva anche a non riconoscerlo più, è necessario quindi pianificare un intervento ed una cura specifica anche per chi si occupa del malato.
Il primo passo è aiutare a comprendere l’importanza di chiedere aiuto comunque alla famiglia oppure di accettare l’assistenza anche di altri operatori esterni.
Uno psicologo può offrire uno spazio di sostegno e di comprensione attraverso un percorso di psicoterapia individuale oppure pianificando un trattamento domiciliare.
Un ulteriore aiuto può essere offerto, dalla partecipazione a gruppi di auto-aiuto realizzati da chi assiste i malati di Alzheimer, un’occasione importante di condivisione di problemi e soluzioni.
Questi gruppi sono uno strumento prezioso per sostenere durante il percorso della malattia, per seguire i familiari nelle varie fasi e aiutarli ad affrontare alcune delle tematiche più drammatiche di questa malattia come l’accettazione e la sua comprensione, il modificarsi dei ruoli, l’elaborazione del lutto, l’analisi del senso di colpa, delle motivazioni e delle scelte…
Lo scopo principale di questa tipologia di gruppo è “curare chi cura”, allentando l’isolamento e lo stress cui si è sottoposti, accrescendo la possibilità di guardare ai propri problemi da una prospettiva più ampia attraverso il confronto con gli altri e aiutando a riportare su di sé una parte di tutta l’attenzione dedicata al malato.
Lo scopo di qualsiasi intervento venga scelto è quello di insegnare a ritrovare o preservare l’energia e la salute.
Ho scritto questo articolo con l’aiuto della Dott.ssa Roberta Federico
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