L’infibulazione deriva dal sostantivo latino fibula (spilla) ed è una mutilazione genitale femminile caratterizzata dall’asportazione del clitoride, delle piccole e grandi labbra attraverso una prima cauterizzazione ed una successiva sutura della vulva, ad eccezione di un piccolo foro lasciato aperto per far defluire urina e sangue mestruale.
Nonostante anche solo la definizione, senza entrare nei particolari, faccia rabbrividire purtroppo ancora oggi è una pratica usata e ben ancorata ad alcune popolazioni.
LE ORIGINI: La mutilazione genitale femminile ha origini antichissime anche se rimangono tutt’ora vaghe e imprecise. Si parla di una tradizione pre-islamica, probabilmente in uso già nell’antico Egitto, da dove sarebbe approdata poi a Roma.
Ma se ne parla sin dagli egizi: secondo la leggenda egiziana gli dei erano dotati di natura bisessuale e solo eliminando i segni dell’altro sesso potevano riacquistare la loro vera identità.
Nell’antica Roma si praticava l’infibulazione sulle schiave per evitare gravidanze indesiderate anche se designava anche un’operazione maschile cioè quando una spilla veniva applicata ai giovani per impedire loro i rapporti sessuali.
IN COSA CONSISTE: Al contrario della circoncisione maschile, la mutilazione femminile causa una menomazione a vita, non è affatto utile per l’igiene personale e produce danni fisici e psicologici.
La contraddizione di questo rituale è che le pressioni sociali e familiari fanno sì che siano le stesse donne vittime ad essere d’accordo ed a richiedere la pratica: queste donne sono profondamente convinte della loro usanza perché è una tradizione e perché è una caratteristica distintiva delle donne del loro popolo ma è pur sempre un avvenimento che ricordano con sofferenza, un momento duro ma essenziale per la loro futura vita relazionale.
Si accostano e subiscono questa violenza senza piangere nè urlare, andando incontro al loro destino senza mostrare paura ma animate dalla fierezza, dall’orgoglio e dalla coscienza del loro ruolo di donna resa così più stimabile.
Sono le stesse madri che spingono le figlie dai 4 ai 12 anni a sottoporsi al rito e le bambine, sin da piccole, sono abituate a mostrare il loro organo mutilato così da far vedere quanto siano rispettabili e quindi sentirsi e farsi riconoscere parte del gruppo sociale.
Per spiegare tali credenze va ricordato che le popolazioni di Mali, Sudan, Kenya e Nigeria considerano il clitoride un organo aggressivo, che minaccia quello maschile e mette in pericolo di vita.
Alcuni popoli credono addirittura che possa crescere tanto da raggiungere le dimensioni di quelli maschili, in ognuno esiste un organo sessuale maschile ed uno femminile ed al fine di sottolineare con certezza il vero sesso della persona, uno dei due va “cancellato”. Negli uomini viene quindi operato il prepuzio (l’elemento femminile) e nelle donne il clitoride (l’elemento maschile).
Le leggende sul clitoride, oltre ad essere numerose altre, sono comunque curiose e disparate ma hanno in comune il considerarlo un elemento “sbagliato”, di cui vergognarsi, un qualcosa di sporco che emana un cattivo odore e quindi può essere nocivo per la donna ed un eventuale bambino.
Invece purtroppo la verità è l’esatto contrario ed anzi, la vita della mamma e del figlio è messa a repentaglio proprio da questa stessa pratica.
Oltre al ruolo del clitoride, esistono altre motivazioni alla base: con questa mutilazione si ricerca l’attenuazione del desiderio sessuale femminile, per proteggerla dalla tentazione sessuale e mantenerla così casta fino al matrimonio, una sorta di cintura di castità.
Le famiglie sono interessate a dare in sposa una figlia illibata sia per tradizione che per interesse economico: la famiglia del futuro marito offre in cambio della donna vergine somme in denaro o in bestiame. Se, in seguito ad un controllo accurato, la moglie non dovesse risultare tale, la famiglia dello sposo esige la restituzione dell’intera somma versata.
In società tanto arretrate, il matrimonio è considerato l’unico destino di una ragazza, chi non è infibulata è vista come una prostituta ed è allontanata dalla comunità.
Inoltre è una pratica religiosa e considerata come un rito di passaggio dal mondo infantile a quello adulto.
In sostanza rappresenta una forma di controllo della sessualità femminile e di disciplina del corpo attuata da comunità patriarcali che considerano la donna solo come madre e come produttrice di reddito
LE CONSEGUENZE: L’infibulazione, più che ridurre il desiderio, riduce la sensibilità femminile. Inoltre la chiusura della vulva comporta una fuoriuscita innaturale di urine e sangue mestruale che possono causare casi di sterilità ma anche infezioni pelviche.
Il parto di una donna infibulata può inoltre portare alla morte sia del feto che della mamma.
Infine le condizioni in cui è praticata, sono primitive, senza anestesia e al di fuori di qualsiasi indicazione igienica.
Nonostante siano pratiche condivise dalla popolazione d’origine, spesso causano difficoltà psicologiche in chi ne è vittima.
ALCUNI DATI: Dalle ultime ricerche si stima che più di 100 milioni di donne hanno subito questa pratica, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono circa 91 milioni le bambine sottoposte a questa tortura con più di 9 anni. Dati che sono sottoposti ad un aumento di 3 milioni all’anno.
La zona in cui è praticata di più è l’Africa (Somalia, Gibuti, Sudan, Nord Kenya, Sud Egitto, Nord Nigeria, Eritrea, Benin, Mali…) ma anche Oman, Yemen, Emirati Arabi Uniti, alcune zone dell’Indonesia, della Malaysia, dell’America Latina e ancora India, Pakistan, Bangladesh.
Anche in Italia si possono trovare donne infibulate: 35.000 donne immigrate hanno subito la pratica nel loro paese e più di 1.000 bambine sono a rischio di esservi sottoposte.
Non sono rituali caratteristici solo di piccole società rurali ma sono diffusi su vasta scala e non mostrano differenze di istruzione o classe sociale.
In Italia l’infibulazione è un reato penale, che può portare a passare da 4 a 12 anni in carcere, pena che aumenta di un terzo se è coinvolta una minore e se è a scopo di lucro.
Gli stessi medici rei di praticarla possono rischiare l’interdizione da 3 a 10 anni dalla professione.
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